In un momento in cui il mercato del vino italiano soffre contrazioni nei consumi e nei prezzi, c’è un segmento che resiste e incuriosisce i mercati internazionali: i vini vulcanici. Un fenomeno al tempo stesso forte e fragile: forte per l’appeal immediato che la parola “vulcano” evoca, fragile perché manca ancora una strategia condivisa di comunicazione e tutela.
A Milo, nell’antica Tenuta Barone di Villagrande ViniMilo ha acceso i riflettori sui vini vulcanici. A guidare il confronto Giulio Somma, direttore del Corriere Vinicolo, che ha messo allo stesso tavolo Marco Nicolosi (Barone di Villagrande), Giampaolo Girardi (Proposta Vini), John Szabo (Volcanic Wines, Canada), Edoardo Ventimiglia (Sassotondo, Volcania 2009), Mara Lora (Val di Cembra) ed Elisa Cavazza (Cavazza, Gambellara), con un intervento da Napoli di Ciro Esposito (Vesuvio DOC). Obiettivo dichiarato: valorizzare e raccontare il suolo vulcanico evitando semplificazioni, e costruire regole condivise che tutelino l’uso del termine “vulcanico”.
Il “perché” dei vini vulcanici: un’identità che non si può nascondere
Giulio Somma apre i lavori richiamando il settore a un atto di consapevolezza: «I suoli vulcanici trasmettono un carattere organolettico riconoscibile. Qui non parliamo di slogan, ma di fisico-chimica. È quel mix di elementi che tutti i produttori nel mondo sognano: vocazionalità vera, territorio e vino in armonia». Una riflessione che disegna l’Italia come una dorsale vulcanica continua, dal Veneto alla Sicilia, passando per Valsesia, Amiata, Vulture, Campi Flegrei e Vesuvio. Eppure, osserva Somma, questa peculiarità resta poco valorizzata nel discorso mainstream e rischia di essere appiattita da comunicazioni troppo rapide, spesso piegate alla logica dei social.
Un’osservazione che trova eco nelle parole di Giampaolo Girardi, fondatore di Proposta Vini, che da trent’anni lavora per valorizzare le micro-realtà italiane: «All’interno del nostro catalogo – ha spiegato – abbiamo sempre dato spazio a tematiche che raccontano le specificità: i vini vulcanici rientrano nello stesso percorso che comprende i vini franchi, i vini estremi, i vini delle isole minori. Non si tratta di singoli territori, ma di categorie geologiche e culturali che uniscono più luoghi».
Girardi insiste: «Non parliamo di paesaggio, parliamo di geologia». Per chiarire, ha ricordato la classificazione dei territori sviluppata con un geologo: vulcani attivi (Etna, Stromboli, Vulcano), dormienti, spenti poco rimodellati (Bracciano, Bolsena) e infine spenti e completamente rimodellati (Val Sesia, Monte Amiata). Tutti, però, lasciano una traccia riconoscibile nei calici.
Da distributore, rivendica una scelta chiara: «Noi abbiamo deciso di usare il termine vini vulcanici, mentre gran parte dei competitor si limita a elencare denominazioni o cantine senza mettere in evidenza la radice geologica. È questo che ci distingue».
Ma qui arriva il nodo: «C’è un imbuto. Tutto il lavoro straordinario dei produttori rischia di restare chiuso in un circuito ristretto di appassionati, giornalisti e parte della ristorazione. Mancano spazi nelle carte vini degli alberghi, nelle strutture che ospitano milioni di turisti. Sarebbe il canale naturale per intercettare un pubblico colto e curioso».
Da qui l’appello: «Non è un lavoro che può fare da solo il distributore. Serve un’azione corale: produttori, consorzi, scuole alberghiere, politica. Nei ristoranti e nelle enoteche dovrebbero comparire sezioni dedicate ai vini vulcanici, anche mettendo insieme territori diversi. Questo è fare squadra. Oggi siamo lontani, ma ci arriveremo: il consumatore italiano è evoluto, più attento di altri mercati europei. È tempo di forare questo tappo e trasformare l’identità vulcanica in un valore comunicato e riconosciuto».

Dal mondo: mercato pronto e storytelling naturale
Se in Italia si avverte l’urgenza di regole e comunicazione rigorosa, dall’estero arriva un segnale opposto: il mercato è già pronto. «Negli ultimi mesi la stampa internazionale ha moltiplicato l’attenzione: Drinks Business, Wine Enthusiast, 750 Daily…», ha raccontato John Szabo, ambasciatore globale del tema. «I vulcani affascinano di per sé, prima ancora dei tecnicismi: acqua, fertilità, tradizioni millenarie. È uno storytelling naturale».
Szabo ricorda però che non si tratta solo di suggestione: esiste una base scientifica. «Abbiamo riscontrato differenze misurabili tra suoli basaltici, riolitici e calcarei, e queste si riflettono – con le dovute cautele – nello stile dei vini. Non è fantasia: c’è sostanza». Da qui la sua proposta: guardare con attenzione alla certificazione internazionale “Volcanic Origin”, che prevede verifiche in vigneto e comparazioni tra suoli.
Italia: una “spina dorsale” che chiede regole
Se dall’estero arriva ottimismo, dall’Italia giunge l’avvertimento che senza regole il termine rischia abusi. Lo sottolinea Edoardo Ventimiglia (Sassotondo), tra i promotori di Volcania già nel 2009: «Oggi il nodo non è più “se” i vini vulcanici esistono, ma come proteggere questa identità da appropriazioni indebite».
Gli strumenti, ricorda, già ci sono: «L’Italia dispone di una carta geologica dettagliatissima, in alcune regioni fino alla scala 1:5000. Se una vigna ricade in un’area certificata, il vino è vulcanico. Dove la carta non basta, si può coinvolgere un’università: un geologo certifica il suolo, e il problema è risolto».
Il rischio è di “furberie”: «C’è chi guarda un vulcano a venti chilometri e pensa: anche a noi farebbe piacere avere un po’ di cenere vulcanica. Ecco, questo va evitato».
La proposta è chiara: «Serve che i consorzi si siedano a un tavolo e scrivano un regolamento comune. Due le strade: un marchio collettivo, come già avevamo provato a fare con il logo Volcanic Wines, oppure chiedere al Ministero di inserire nei disciplinari la possibilità di usare le diciture “territorio vulcanico” o “vino vulcanico”».
Ventimiglia cita anche il lavoro scientifico in corso con il professor Conticelli, già presidente dei vulcanologi italiani: «Stiamo preparando la riedizione di Vino Vulcano, un testo accademico pubblicato vent’anni fa e ormai introvabile. È a tre quarti: l’anno prossimo potrebbe uscire, e sarà una base comune per tutti».
E conclude: «La forza dei vini vulcanici non è uno slogan, ma una verità geologica. È tempo che questa verità sia riconosciuta e tutelata. Dobbiamo essere noi, territori autentici, a stabilire le regole».
Identità vulcanica: linguaggio, consapevolezza e responsabilità
Dal confronto tra territori emerge un dato: la coscienza vulcanica non è uniforme, ma attraversa l’Italia come un filo comune.
Per Elisa Cavazza (Cavazza, Gambellara) questa consapevolezza è recente: «I nostri nonni parlavano solo della fatica in vigna, mai del vulcano». Eppure i suoli sottomarini di 40 milioni di anni fa e la Garganega, che dà vita all’unico Vinsanto “vulcanico” del Veneto, sono un patrimonio che oggi va raccontato. «Non basta dire minerale o sapido, bisogna spiegare cosa significa davvero coltivare su un terreno vulcanico». Per lei il racconto deve farsi esperienza concreta: portare operatori e consumatori a vedere le colonne basaltiche della Cava San Marco e costruire un lessico comune.
Un’esigenza che trova sponda nelle Alpi trentine, dove Mara Lora richiama la forza di un paesaggio che “parla da sé”: porfido ovunque, 708 km di muretti a secco, viticoltura eroica. Ma anche qui il linguaggio va aggiornato: «Il termine mineralità è superato, oggi parliamo di sapidità». La sua sfida guarda oltre i confini: agganciare i vini italiani a una certificazione internazionale come Volcanic Origin, per un “passaporto” globale.
Dal Vesuvio, Ciro Esposito sposta l’attenzione sulla politica: «La viticoltura campana nasce in zona vulcanica, ma oggi dobbiamo fare i conti con normative europee spesso ostili, dalle etichette al vino dealcolizzato. I consorzi hanno dato identità ai produttori, ma serve una sponda politica e una rete con altri territori, anche all’estero». E avverte: Etna e Vesuvio hanno un ruolo trainante, «da esercitare con responsabilità, non con logiche di supremazia».
E proprio l’Etna, con la voce di Marco Nicolosi (Barone di Villagrande), mostra come identità e misura possano camminare insieme: «Il nostro boom non dipende dal marketing, ma da autenticità, bevibilità e da uno stile che incontra i gusti contemporanei». Ma anche qui serve precisione: «Dire “minerale” non ha senso scientifico, se non per lo zolfo, che nessuno vuole sentire in un vino. Servono argomenti verificabili, comuni a tutti i territori vulcanici». L’Etna produce appena 6 milioni di bottiglie e ha già imposto lo stop a nuovi impianti DOC: «Meglio crescere lentamente, con valore, piuttosto che inseguire il volume».
Dalla teoria alla prassi: come si racconta (bene) il vulcano
Dalle riflessioni dei relatori è nata quasi spontaneamente una cassetta degli attrezzi condivisa, capace di trasformare la vulcanicità da slogan a racconto credibile.
Il primo strumento è la geologia, da mettere prima del marketing: mappe dei suoli, cronologia delle eruzioni o delle formazioni sottomarine, altimetrie e microclimi influenzati dal massiccio. È qui che affonda la radice della diversità, e da qui dovrebbe partire ogni narrazione.
Poi serve renderla esperienza: cave, colate, muretti, alberelli antichi, sistemi di potatura. Una degustazione in situ – se ben costruita – lega il calice al territorio più di mille parole.
Fondamentale anche il lessico: “mineralità” è un termine da archiviare. Meglio parlare di sapidità, tensione, trama salina, struttura acido-salina, grana tannica nei rossi, texture. Parole che hanno fondamento sensoriale e restituiscono precisione.
Infine la visibilità: ristoranti e hotel dovrebbero introdurre sezioni vulcaniche nelle carte vini, trasversali alle singole denominazioni. Non per creare una categoria artificiale, ma per educare senza pedanteria, mostrando come la stessa matrice geologica si esprima in modi diversi da un territorio all’altro.
Dall’Etna un messaggio condiviso
In sintesi, raccontare il vulcano significa mettere insieme scienza e suggestione, esperienza e linguaggio, creando un messaggio comune che sappia emozionare ma anche convincere. Un messaggio che proprio dall’Etna, con i suoi vigneti sospesi tra mare e fuoco, può oggi farsi bandiera di una rete più ampia: quella dei territori vulcanici che hanno deciso di raccontarsi con rigore, visione e orgoglio.
Fabiola Foti