Tindaro Granata nasce nel 1978 a Tindari(ME). Si trasferisce a Roma per inseguire il sogno di diventare un attore e, dopo tanti sacrifici, nel 2002 ha inizio la sua carriera, affiancando Massimo Ranieri in “Pulcinella” diretto da Maurizio Scaparro.
Nel 2008 partecipa al gruppo PPP, creato da Cristina Pezzoli, ed è in questo contesto che nasce “Antropolaroid”, che l’anno dopo raggiunge la sua forma finale di monologo.
Vari sono i riconoscimenti attribuiti allo spettacolo: il Premio della Giuria Popolare della “Borsa teatrale Anna Pancirolli”, il Premio “ANCT” dell’Associazione Nazionale dei Critici nel 2011, il Premio Fersen in qualità di “Attore Creativo” nel 2012.
Nel corso della sua carriera Tindaro ha collaborato con registi e attori di grande spessore tra cui Elisabetta Pozzi, Carmelo Rifici e Cristina Pezzoli.
A partire dal dicembre del 2021 Tindaro ricopre il ruolo di direttore artistico presso il Teatro Greco di Tindari. In occasione della messa in scena di “Antropolaroid” a Zo Centro Culture Contemporanee di Catania, abbiamo incontrato Tindaro Granata e gli abbiamo chiesto di parlarci un po’ della sua carriera e del suo spettacolo.
L’intervista
La sua carriera ha inizio nel 2002, con l’esordio in “Pulcinella” con Massimo Ranieri. Nell’arco di questi ventun anni quali, secondo lei, sono stati i momenti più importanti e le persone che le hanno lasciato di più nel suo percorso?
«Sicuramente Massimo Ranieri è stata una persona importantissima perché mi ha introdotto al mondo del teatro. Poi ci sono una serie di altre persone a me care, tra cui Cristina Pezzoli, la regista con la quale è poi nato “Antropolaroid”, Carmelo Rifici e i registi con i quali ho lavorato per quanto riguarda il mio percorso formativo d’attore, cioé Andrea Chiodi, Serena Sinigaglia e Leonardo Lidi. Incontri importanti della mia carriera sono stati anche i colleghi e le colleghe con i quali sono andato in scena, perché da loro ho rubato e appreso tantissime cose che poi mi sono servite per migliorarmi. Ecoo perchè metterei tutti sullo stesso piano, ho imparato tanto da tutte le persone con le quali ho lavorato».
Cosa significa per lei, in quanto siciliano emigrato, ritornare alle sue radici familiari con questo spettacolo e soprattutto portarlo in Sicilia?
«È come se io avessi portato un pezzo della nostra terra in tutta Italia. Non solo perché lo spettacolo è in dialetto siciliano e racconta la storia di alcune famiglie del nostro territorio, ma anche perché è un piccolo scrigno che contiene la cultura di un popolo, che è il nostro popolo siciliano. Portare lo spettacolo in posti dove non si parla la nostra lingua, dunque, per me è un’occasione importante per parlare della nostra terra, che non è soltanto la terra della mafia, e dei clichés del siciliano medio. Portare questo scrigno prezioso in Sicilia è sempre bellissimo, perché ovviamente sono a casa, una casa importante che mi ha dato la lingua, la cultura, il mio modo di essere. Dall’altro lato però è anche una casa che io ho lasciato perché non stavo bene, per realizzare il mio sogno ed essere felice. Perché qui l’idea del lavoro che c’è, è un’idea malsana, complessa e fatta di mille compromessi che al Nord non si trovano. Amo questa terra e amo questa gente, perché io sono la mia terra e io sono la mia gente. Però c’è da dire che io non vivo qua, io sono felice anche a Milano, dove ho scelto di vivere e un motivo c’è. Sono felice ogni volta che porto “Antropolaroid” in Sicilia, perché sento che questa è la mia terra ma tante volte mi viene da pensare che questa è una delle mie case e non più la mia sola casa».
Una delle prime storie con la quali si entra in contatto, fin dalla propria infanzia, è quella della propria famiglia. L’uso del mezzo teatrale e il mettere in scena questa storia, vivendo personalmente le vicende dei suoi antenati, hanno cambiato la sua percezione dei fatti o l’hanno confermata?
«Più che la mia percezione dei fatti, è cambiata la percezione che ho in merito a determinate dinamiche sociali, nel senso che, quand’ero più giovane, condannavo delle cose rispetto ad altre, invece adesso, capisco di più quali sono i meccanismi che muovono una certa mentalità e certe azioni. Ciò non significa che le giustifico, però comprendo quali sono le problematiche e le difficoltà che hanno portato le persone di quell’epoca a vivere in quel modo, invece prima ero molto più duro e chiuso dentro un’ideale».
Antropolaroid nasce tra il 2008 e il 2009. Nel corso di questi anni, ci sono stati dei cambiamenti nello spettacolo in sé o nel modo in cui lei lo percepisce?
«Ci sono stati alcuni cambiamenti, non sostanziali. Per esempio, utilizzando la tecnica del “cuntu” antico che si tramandava oralmente, ci sono dei pezzi dello spettacolo che non sono scritti ma anche lì dove sono scritti io non dico mai le stesse parole, quindi diciamo che è uno spettacolo che si rinnova ogni sera che va in scena. Proprio per questa ragione, considerando che spesse volte ci sono tecnici diversi che mi seguono per ogni spettacolo, io per esempio gli do delle battute o certi momenti come riferimenti fissi per aiutarli con il cambio delle luci e delle musiche».
Quali sono i suoi obiettivi a breve e a lungo termine per il futuro della sua carriera d’attore?
«Mi piacerebbe continuare a fare quello che io desidero e quindi avere una libertà totale di espressione e mi piacerebbe lavorare con persone con le quali non ho mai lavorato, delle quali stimo il lavoro. Inoltre vorrei gestire un teatro dove io possa essere molto più libero di come sono. C’è da dire che, sicuramente, sono un grande privilegiato del teatro italiano, perché alla mia età sono riuscito ad avere tante opportunità che molti dei miei coetanei non hanno avuto. Però l’essere umano non è mai contento, perciò mi piacerebbe avere un altro tipo di libertà che oggi non ho e quindi secondo me avere un teatro che mi permetta di potermi esprimere come meglio credo e di non essere assoggettato alle disponibilità degli altri, sarebbe un lusso che mi piacerebbe potermi concedere».