Mia è uno di quei film che colpiscono allo stomaco e al cuore insieme. Diretto da Ivano De Matteo e scritto con Valentina Ferlan, racconta la storia di una ragazza di quindici anni la cui vita cambia radicalmente dopo l’incontro con un ragazzo più grande. Un film duro, autentico e necessario, che affronta temi come le relazioni tossiche, la manipolazione psicologica, la dipendenza affettiva e il revenge porn, fino a toccare la tragedia del suicidio giovanile.
La protagonista e l’incontro con l’uomo
La protagonista, Mia (interpretata da Greta Gasbarri), è una ragazza come tante: frequenta la scuola, gioca a pallavolo, vive con due genitori premurosi, ma spesso distratti dalla routine quotidiana. La sua è una famiglia normale, affettuosa, ma imperfetta, con un padre, Sergio (Edoardo Leo) che fa l’autista di ambulanze e una madre, Valeria (Milena Mancini) che tenta di gestire il difficile equilibrio tra lavoro e casa.
Tutto sembra scorrere con leggerezza, finché Mia conosce Marco (Riccardo Mandolini), un ragazzo più grande e affascinante, che all’inizio la fa sentire speciale. Ma quello che inizia come un amore adolescenziale si trasforma presto in qualcosa di oscuro. Marco diventa possessivo, geloso, ossessivo. Le impone regole, la controlla, la isola dalle amiche e la fa sentire in colpa per ogni gesto.
Mia, come spesso accade nelle relazioni tossiche, non se ne accorge subito. Pensa che tutto sia una forma d’amore, che la gelosia sia passione, che il controllo significhi protezione. Ma quando l’amore diventa una gabbia, è difficile capire dove finisca l’affetto e inizi l’abuso.
Il revenge porn
La situazione precipita quando Marco diffonde immagini intime della ragazza, trasformando la fiducia in umiliazione pubblica. Il “revenge porn” diventa l’arma finale di una violenza silenziosa, ma devastante. Mia cade in un vortice di vergogna, rabbia e senso di colpa, incapace di confidarsi con i genitori o di chiedere aiuto. Il silenzio diventa la sua prigione.
De Matteo racconta tutto questo senza morbosità, con grande rispetto e sensibilità. Non mostra mai l’atto violento, ma ne fa sentire tutto il peso. È il non detto, lo sguardo smarrito di Mia, la distanza crescente tra lei e il mondo a raccontare meglio di qualsiasi parola la profondità della ferita.
La scelta di togliersi la vita
Il padre, intuendo che qualcosa non va, prova a proteggerla, ma si scontra con un muro di paura e chiusura. È un genitore che soffre, che si sente impotente, e che arriverà troppo tardi. Quando Mia, schiacciata dal dolore e dall’umiliazione, sceglie di togliersi la vita, il film raggiunge il suo punto più straziante. Non mostra la scena, ma ne racconta le conseguenze: la casa vuota, il silenzio dei genitori, il senso di colpa di un padre che non riesce più a perdonarsi.
Da qui Mia cambia prospettiva. Il racconto si sposta su Sergio, che decide di indagare sulla vita della figlia, di capire cosa le sia accaduto davvero. Scopre le chat, i video, la manipolazione subita. Il dolore si trasforma in rabbia, e il film diventa un viaggio dentro la vendetta e la disperazione, ma anche dentro la responsabilità e la coscienza.
Ivano De Matteo non cerca la spettacolarizzazione, ma la verità. Mia è un film che parla di una tragedia individuale, ma che riguarda tutti. È un grido di allarme verso genitori, educatori e ragazzi: le dinamiche di controllo e di abuso possono nascere anche dove c’è amore, anche dietro uno schermo, anche tra adolescenti che credono di conoscersi.
La fotografia spenta, le ambientazioni urbane anonime e la colonna sonora essenziale contribuiscono a creare un’atmosfera realistica e dolorosa. Ogni scena invita a riflettere, mai a giudicare.
Il film racconta un dolore estremo, ma reale: quello di chi si fida, ama e condivide una parte intima di sé, per poi vederla usata come arma. Il revenge porn, la diffusione non consensuale di immagini private, è una delle forme più violente di abuso psicologico contemporaneo. Non è solo una violazione della privacy, ma un attentato alla dignità e alla libertà di una persona.
Molti adolescenti non percepiscono fino in fondo la gravità del gesto: in un’epoca in cui tutto si mostra e tutto si pubblica, l’intimità perde confini. Si confonde la fiducia con l’esibizione, l’amore con il controllo, l’affetto con il possesso. In questa confusione, spesso alimentata dalla cultura dell’immagine e dal bisogno di approvazione, nascono le relazioni tossiche come quella di Mia.
Un meccanismo di vergogna e silenzio
Le vittime del revenge porn non sono mai “colpevoli” di essersi fidate: la colpa è sempre di chi tradisce, di chi diffonde, di chi usa l’intimità altrui come strumento di potere. Ma la società, troppo spesso, colpevolizza chi subisce. È un meccanismo di vergogna e silenzio che rende il dolore ancora più profondo.
Serve educazione, empatia, dialogo. Serve insegnare ai ragazzi che la rete non è un luogo neutro, che ogni foto, ogni video, ogni parola può restare, può ferire, può distruggere. E serve insegnare anche agli adulti a non giudicare, ma ascoltare.
Il revenge porn non è solo un reato: è un segnale di quanto fragile sia diventato il confine tra amore e violenza, tra fiducia e abuso. Proteggere i giovani significa aiutarli a riconoscere questi confini, a costruire relazioni sane e a sentirsi liberi di chiedere aiuto senza paura.








