«Io racconto storie, di solito lo faccio con le immagini. Questa è la prima volta che utilizzo la carta al posto della macchina da presa».
Con queste parole, Marco Pirrello, autore del libro “Inquadrando Palestina”, racconta la sua prima opera letteraria.
«Io non sono uno storico e questo libro non è un trattato di geopolitica. Questo resta il mio diario di viaggio, o meglio, i miei appunti e le mie riflessioni nate da ciò che ho visto e ascoltato».
Marco Pirrello è un regista e filmmaker freelance. Ha iniziato a muovere i primi passi nel campo dell’audiovisivo all’interno della redazione di Step1, webmagazine della facoltà di Lingue dell’Università di Catania, realizzando video inchieste e documentari, tra cui “Peppino, tutta un’altra storia” (2011) premiato con la Menzione Speciale al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia.
Il suo ultimo lavoro “Solo Al Cinema” (2022) ha vinto il premio come miglior cortometraggio al Ferrara Film Festival e a Insula/Magma Fest. Il suo motto continua a essere lo stesso dei primi giorni: “Fazzu video”, l’unico modo con il quale riuscì a spiegare a sua nonna il proprio lavoro.
L’autore siciliano ha presentato il suo capolavoro, nel centro di formazione “Performat” a Catania, in una chiacchierata con Salvo Toscano (moderatore, coordinatore del centro Performat), Alessandra Pace (psicoterapeuta) e Aldo Virgilio (psichiatra).
Racconta le percezioni e le sensazioni di ciò che vede filtrandole attraverso terminologie tipiche del dialetto siciliano, come ad esempio:”accupamento”. Quel senso di “soffocamento”, in particolar modo adoperato per descrivere la percezione di sofferenza avvertita dagli abitanti palestinesi nel vivere, in quella prigione a cielo aperto, di cui parla l’autore, un cielo sorvolato da droni, un mare invalicabile, delle case distrutte, da ricostruire.
“Allo stesso tempo questo drone che adesso sembra così vicino si sposterà in un’altra zona, ma non ci sono dubbi, tornerà. Per farlo andare via purtroppo, non basta aprire una finestra. Sono delle armi psicologiche”. Queste alcune delle parole che si leggono sfogliando le pagine del libro, che mette in luce il rumore assordante delle bombe misto a quello dei droni.
In questo “non silenzio” Ibrahim e Mohamed, due personaggi del libro, diventano i portavoce di un mondo fatto di simulazione, dove tutto è niente e dove ciò che accade, le atrocità di una guerra, è come se fossero qualcosa di “normale”.
Intervista all’autore
Come ci si abitua a una cosa del genere, è uno scenario di fatto arrendevole? «Forse o ti abitui, rassegni più che altro, o impazzisci. Dovrei probabilmente fare come loro e smetterla di guardare tra le nuvole».
Si può pensare a una modalità diversa di vivere in quel posto? «Non c’è soluzione. Solo con un barlume di umanità, soltanto con essa, forse, potrebbe esservi una risoluzione».
Cosa ti ha segnato di più di questo viaggio? «Ciò che mi ha più sorpreso, è stato vedere come quegli uomini, donne e bambini trovassero la felicità nelle piccole cose, una vera e propria “arte del vivere più semplice”, di un popolo a cui è concessa una porzione di vita tra una guerra e l’altra».
Nel libro l’autore riesce a trasmettere quella dimensione di paura che impedisce di pensare che è possibile avere dei desideri normali, “desideri della vita quotidiana”.
Il lettore diventa partecipe di quelle atrocità, fino a far percepire quel senso di “accupamento”, in una prigione a cielo aperto, Gaza, assediata da Israele, in cui vivono due milioni di persone in appena 360 km quadrati.
“Inquadrando Palestina” analizza l’aspetto psicologico di questo popolo sottoposto a uno stress costante, piegato dalla continua paura di perdere la vita, la propria casa o la famiglia. I traumi restano nella pelle e nella mente per sempre, soprattutto nella condizione di vita di chi ha smesso di sognare ed è rassegnato a quei droni che ronzano come mosconi su nel cielo.
A dare vita a questo diario di viaggio, è stata la proposta di una ONG spagnola “Médicos del Mundo” che, ha coinvolto Marco Pirrello nella realizzazione di un reportage sulla situazione della striscia di Gaza per testimoniare il loro aiuto in ambito sanitario e sociale.
«Quando mi trovavo sulla striscia di Gaza, guardando il mare, mi sembrava come se fosse il mio mare, quello della Sicilia. Ogni volta che andavo da una città all’altra, avvertivo quel senso di colpa scaturito dal fatto che io potevo spostarmi liberamente mentre gli abitanti palestinesi, non potevano».
Il racconto di Maha
Tra i racconti più struggenti, quello di Maha, una ragazzina di quattordici anni che in un bombardamento del 2014 ha perso ben sette familiari. Maha durante un dialogo con Hiyam, la sua psicologa, le confida di aver perso la voglia di vivere, di avere una paura costante di svegliarsi la mattina e non trovare più sua madre, così al suo risveglio controlla sempre se respira. I suoi sogni sono svaniti come cenere, non ha più voglia di studiare, non crede in un futuro.
Questo libro con le sue parole, rappresenta un vero e proprio atto di custodia delle vicende confidate all’autore dalle persone che ha incontrato. Racconta storie di guerra, i ricordi e le memorie di chi è ancora in vita e rammenta chi ormai non c’è più.