Catania cambia, in silenzio. Anche se non sembra. Non cambia con gli annunci, né i grandi cantieri. Ma con le piccole cose che non finiscono mai sulle prime pagine: un’insegna che scompare, una serranda che non si rialza, un portone che da mesi resta chiuso, un parcheggio inaccessibile, un prato secco. La città si trasforma giorno dopo giorno, senza chiedere il permesso a nessuno, e spesso senza che nessuno ci faccia davvero caso, con l’emozione che ciò dovrebbe pure determinare. Se, tra una telefonata di corsa e uno scroll dei social fermi al semaforo, ci fermassimo invece a osservare, ci accorgeremmo che le città non cambiano solo quando si costruisce qualcosa di nuovo, ma anche quando si smette di fare, di usare ciò che già esiste o di usarlo nel modo adeguato.
Una metamorfosi urbana
Ogni mutamento d’uso, ogni vetrina che diventa magazzino, ogni terrazzo che si trasforma in un piccolo giardino o in magnifico loft, ogni appartamento che si riconfigura per un nuovo modo di abitare è un frammento di metamorfosi urbana. Silenziosa, inesorabile. Implacabile.
Eppure questi gesti muti e minuti, apparentemente insignificanti, raccontano più del futuro di una città, della nostra città, di quanto non facciano i masterplan, gli annunci di visioni future, le importanti mission strategiche, che in fondo nessuno poi ascolta e accoglie per farli propri e concreti. Troppo in là, si dice. In un mondo in frenetico inurbamento, noi viviamo accelerati in un tempo invece effettivamente rallentato, frenato quasi, in cui la città si rigenera per sottrazione, in sordina, sotto le apparenze.
Città come organismo vivo e mutante
Si chiudono scuole, si svuotano uffici, si abbandonano negozi, si abbandonano vecchie auto, si lasciano vuote e incurate le case che abbiamo ereditato, magari in troppi perché anche solo uno se ne senta responsabile. Ma non è solo un segno di crisi: è un segno di adattamento. Gli spazi si riconvertono, si ibridano, si frammentano per rispondere a nuove esigenze. È un processo non pianificato, spesso disordinato, ma profondamente reale. Certamente non governato.
La città non è un’opera finita: è un organismo, vivo e costantemente mutante, che reagisce ai comportamenti di chi la abita, nel bene e nel male. Forse gli architetti, noi architetti, e più in generale quanti per mestiere e formazione lavoriamo per modificare lo spazio, abbiamo perso l’abitudine a guardare, con attenta curiosità, il quotidiano, a fare caso al cambiamento costante.
Progetto come osservazione
Ci concentriamo, a volte di preferenza, sui progetti “emblematici”, sui landmark, sulle visioni d’insieme, sugli skyline, che pure tanto peso hanno nel determinare il carattere e l’identità di un luogo, di una città. E tuttavia l’architettura urbana accade oggi anche, spesso soprattutto, nei margini, nei vuoti, nei piani terra. Ecco che il progetto oggi non può più essere solo disegno, invenzione, stupore: deve tornare a essere osservazione, per rielaborare e ripensare, certo sempre con il gusto e la sapienza che soli generano positive invenzioni, felice stupore, orgogliosa appartenenza.
In questo senso, Catania è un laboratorio straordinario: una città che sopravvive a sé stessa da secoli, cambiando forma senza perdere, in fondo, identità. E ogni parte della città racconta un continuo processo di adattamento. Non serve troppa scienza per capire dove sta andando: potrebbe essere sufficiente camminarla con attenzione per capire se la meta che si prefigura è da considerare ambita. Riconoscere la città che cambia non significa subirla, ma accompagnarla, pronti a sostenerla agli inciampi. Significa accettare che la trasformazione è la condizione naturale dell’urbano e che il compito dell’architettura è darle senso, non bloccarla.
Serve uno sguardo lento, capace di cogliere le sfumature. Con la prontezza vigile e pacata di un felino. La prossima volta che attraverserete la vostra strada di sempre, provate a notare cosa è diverso da ieri. Magari non lo troverete subito. Ma sarà lì, da qualche parte, in attesa di essere visto. E voi guardatelo, e fatevi domande.
Così, tutti insieme, ci accorgeremo che la città che vogliamo, o che non vogliamo, è già in corso: impariamo a guardare, a vedere.
————
Mario Caruso – Architetto, autore de L’Urlo
Architetto libero professionista dal 1990, Mario Caruso ha firmato importanti interventi pubblici e privati, distinguendosi per la visione sostenibile, bioclimatica e innovativa della progettazione architettonica. Laureato a Firenze, ha un lungo percorso accademico e professionale alle spalle, con esperienze in ambito universitario, consulenze per enti internazionali come UNESCO e MIBAC e attività progettuale in Italia e all’estero.
Fondatore dello studio Base51, ha lavorato su edifici NZEB, con una spiccata attenzione all’architettura antisismica e alle tecnologie costruttive avanzate.
Autore di pubblicazioni e fotografo d’architettura, ha un approccio multidisciplinare e una naturale inclinazione per la ricerca e la sperimentazione, anche nel campo dell’informatica e della comunicazione visiva.
Su L’Urlo firma la rubrica: “Città in corso” – Appunti di architettura, vite e trasformazioni urbane. Come sopravvivere in città, e magari pure felici. Uno spazio per raccontare, riflettere e indagare il paesaggio urbano con sguardo curioso, critico e umano.








