Ci sono opere che non sono semplici film.
Sono riti di passaggio.
Intervista col vampiro (1994) per chi è cresciuta negli anni ’90 non era solo cinema gotico: era educazione sentimentale, estetica, erotica e filosofica condensata in due ore di bellezza assoluta. Brad Pitt, Tom Cruise, Antonio Banderas. Tre uomini che non recitavano: incarnavano. E Christian Slater, giornalista magnetico e inquieto, faceva da ponte tra noi e l’eternità.
Poi arriva il 2022.
E nel 2025, Netflix.
La serie Interview with the Vampire — tratta, come il film, dal romanzo di Anne Rice, regina indiscussa della letteratura gotica contemporanea — è tecnicamente bellissima. Girata con gusto, ambientazioni curate, ritmo solido, scrittura elegante. Se non avessi mai visto il film, mi sarei tolta il cappello. Davvero.
Ma io quel film l’ho visto.
E non una volta sola.
Il tempo passa. Anche per i miti (ma non eravamo pronti)
La prima coltellata arriva subito:
il giornalista non è più giovane, affamato, sensuale. È vecchio.
Interpretato da Eric Bogosian, incontra Louis non una ma due volte: una da ragazzo, una da uomo anziano e malato, nel pieno della pandemia.
Brad Pitt non c’è più. E non è solo una questione di pelle
Nel romanzo di Anne Rice, Louis è sempre stato tormentato.
Nel film aveva il volto pallido e struggente di Brad Pitt, angelo malinconico che soffriva in silenzio.
Nella serie Louis è interpretato da Jacob Anderson ed è un uomo nero, gay e politico, ma soprattutto ha perso la purezza originaria. Nella serie non è più un vedovo disperato ma un ricco pappone di New Orleans. La sua vampirizzazione diventa anche una riflessione sulla razza, sul potere, sull’America segregazionista.
Tutto legittimo. Tutto interessante.
Ma qui succede qualcosa di delicato:
il mito cambia funzione.
Non è più solo una metafora esistenziale.
Diventa manifesto.
Lestat: da predatore ambiguo a amante dichiarato
E poi c’è lui: Lestat.
Nel film era Tom Cruise: biondo, crudele, seducente, narcisista. Un vampiro che dominava e distruggeva. Resta sempre il mio preferito sia nel 1994 che nel 2025.
Nella serie, Sam Reid interpreta un Lestat apertamente innamorato di Louis. Non allusivo. Non ambiguo.
Una coppia. Una storia d’amore. Un’unione esplicita.
E qui succede il cortocircuito generazionale.
Perché nel nostro immaginario anni ’90 l’ambiguità era tutto.
Il non detto era erotismo.
Il vampiro era desiderio che non si poteva nominare.
Oggi invece si dice tutto.
E si dice anche molto bene.
Ma il prezzo è che il mistero evapora.
Armand, Banderas e il colpo finale
Quando pensi di esserti ripresa, arriva Armand.
Nel film era Antonio Banderas: fascino oscuro, bellezza letale, distanza.
Nella serie è Assad Zaman, e diventa — senza troppi giri di parole — un altro amante. Un terzo polo emotivo.
A quel punto capisci che non stai più guardando Intervista col vampiro.
Stai guardando un’opera nuova che usa quel titolo per parlare d’altro.
E non è un male.
È solo… uno shock.
Anne Rice: tradimento o fedeltà estrema?
La cosa più ironica è che Anne Rice avrebbe probabilmente approvato tutto questo.
Lei ha sempre scritto di vampiri come creature queer, marginali, politiche, fuori norma. Il film del ’94, forse, aveva addolcito e reso più mainstream ciò che nei libri era già presente.
La serie, in questo senso, è più fedele ai romanzi.
Ma non ai nostri ricordi.
E qui sta il punto.
Non è una serie sbagliata. È un lutto non elaborato
Interview with the Vampire non è una brutta serie.
È una buona serie che uccide un mito personale.
E fa male non perché parla di omosessualità, razza o identità — temi sacrosanti — ma perché lo fa lì dove avevamo custodito un’educazione sentimentale intima, privata, formativa.
Forse il vero vampiro è il tempo
Alla fine, forse, questa nuova Intervista col vampiro dice una cosa semplice e crudele:
i miti non sono eterni.
Siamo noi a volerlo credere.
E quando tornano, non tornano per confortarci.
Tornano per dirci che il mondo è cambiato.
E che anche noi, volenti o nolenti, siamo cambiati.
Il problema non è che i vampiri ora sono gay, neri, politici.
Il problema è che non sono più nostri.
E questo, per chi è cresciuta nel buio elegante degli anni ’90,
fa più male di un morso al collo.