“I morti non parlano” è il libro-inchiesta di Flavia Famà edito da Villaggio Maori Edizioni.
Il 21 marzo è la Giornata della memoria e dell’impegno delle vittime innocenti delle mafie, un’iniziativa nazionale voluta da Libera rete di associazioni, gruppi e movimenti coinvolti nell’impegno contro le mafie e la criminalità, a favore della giustizia sociale e della ricerca della verità. Ed proprio grazie a Libera che inizia il percorso dell’avvocato Flavia Famà, figlia dell’avvocato catanese Serafino Famà assassinato dalla mafia nel 1995.
Nel 2014 grazie a Libera, Flavia Famà conosce la realtà della storia colombiana fatta di conflitti, guerriglie, soprusi, verità nascoste, depistaggi, violazioni di diritti. Un viaggio quello in Colombia che le ha dato la spinta e la forza per raccontare attraverso il suo libro “I morti non parlano” le storie di queste vittime e di chi è rimasto in vita senza avere i mezzi o la possibilità di denunciare.
I morti non parlano perché non possono più farlo e chi potrebbe parlare perché ancora in vita, rischia di morire se pronuncia le parole sbagliate, se denuncia, se cerca giustizia. La voglia dell’avvocato Famà invece è quella di denunciare, di cercare la verità anche dove questa è stata insabbiata, infossata in quelle fosse comuni dove sono stati ritrovati i falsos positivos.
Il caso dei falsos positivos
Questo dei falsos positivos è uno dei temi caldi del libro della Famà. Si tratta dello scandalo del 2008 che ha coinvolto membri dell’esercito colombiano responsabili di aver ucciso civili innocenti fatti passare per guerriglieri uccisi in combattimento al fine di ottenere premi e riconoscimenti. Dietro questi omicidi c’era una vera e propria organizzazione con finte promesse di lavoro e taxisti della morte che accompagnavano invece i civili al loro destino. Uno scandalo che è scoppiato quando una madre in particolare non ha accettato l’idea che il figlio invalido al 50% potesse essere davvero un guerrigliero. Le voci di queste madri e il lavoro della stampa presente nel territorio hanno portato alla scoperta di questa organizzazione della morte. I corpi dei giovani di Soacha sono stati trovati a circa 700 km nel Norte de Santander.
Flavia Famà si fa portavoce di queste testimonianze per urlare Giustizia, cercare la verità. Perché come ribadito dalla Famà, anche in Italia spesso le vittime di crimini, delle mafie spesso non hanno giustizia, ma questa è qualcosa che può essere chiesta, qualcosa di cui poter parlare. Ai colombiani però questa possibilità non viene spesso, anzi quasi mai, data.
La Famà parla anche della figura dell’ex narcotrafficante Salvatore Mancuso di origini italiane e del suo ruolo di “anello di congiunzione” con la ‘ndrangheta.
Al telefono Flavia Famà ci parla anche del caso di Mario Paciolla cooperante ONU di 33 anni trovato morto nella sua abitazione a San Vicente del Caguan, in Colombia. Una morte le cui cause non sono ancora state chiarite e che sembra essere un altro evidente omicidio insabbiato.
Come si può sopravvivere in un contesto dove tutto aggira attorno alla criminalità organizzata, la violazione dei diritti, l’insabbiamento degli omicidi?
«Credo che la popolazione civile stia dando una grande dimostrazione di voler rompere con questo sistema» ci racconta Flavia Famà. «Ci sono state le elezioni il 13 marzo ed è la prima volta dopo 70 anni c’è stata una grande coalizione della sinistra e dei partiti di opposizione. Considera che negli ultimi anni queste politiche assurde sono state portate avanti dall’estrema destra. A maggio ci saranno le elezioni presidenziali. Credo che siamo tutti chiamati a vigilare su questo processo democratico. Tra l’altro ci saranno dei seggi anche a Catania e invito tutti a a vigilare perché il rischio di brogli è altissimo. Il cambiamento, il sostegno internazionale è fondamentale. Bisogna cambiare la cultura, l’idea che per andare avanti bisogna cedere al compromesso, alla corruzione, come per la mafia siciliana. E’ un processo lento, ma è quello che poi porta a una pace stabile e duratura. Sta a tutti noi sostenere la popolazione colombiana che vuole questo cambiamento. Anche attraverso l’acquisto del caffè che può dare a loro la possibilità di avviare una riconversione delle colture, abbandonando quindi le piantagioni di coca che sono più redditizie e che per loro rappresentano l’unica fonte di guadagno. Liberarsi quindi del narcotraffico».
“Il tempo ci consegnerà la verità sul sangue che scorre sotto le terre colombiane”, una frase del tuo libro e che oggi in particolare possiamo collegare alle stragi in Ucraina.
«E’ una frase che vale per tutti, anche per le vittime della mafia. Su alcuni assassini di mafia c’è il segreto di stato. Il tempo ci consegnerà la verità, ma dobbiamo essere noi a chiederla. La storia non si scrive da sola. La verità per emergere ha bisogno di richieste da parte di tutti noi. Dopo 30 anni noi non conosciamo ancora la verità dietro la strage di Capaci. Nel 1985 c’è stato un assalto al Palazzo di Giustizia di Bogotà ed è stato fatto un patto del silenzio. Nessuno dei sopravvissuti, nessuno delle persone coinvolte ha più raccontato. Il presidente della Repubblica abitava di fronte al Palazzo di Giustizia. Un silenzio gravissimo per un paese che si dice democratico. Anche tra la Russia e l’Ucraina… ovunque si cerchi di risolvere un conflitto con la violenza, con lo spargimento di sangue, non si potrà mai avere rispetto per i diritti umani. Ciò che ognuno di noi dovrebbe imparare è proprio la risoluzione pacifica del conflitto».
Il 21 marzo è la Giornata della memoria e dell’impegno delle vittime innocenti delle mafie. Cosa vorresti ricordare?
«Mio padre è una vittima della mafia.Da quando ho incontrato Libera, il 21 marzo non è solo ricordare mio papà, ma ricordare tutte le vittime. Ricordare le vittime che ho incontrato in questi anni in Europa e in America Latina, ma soprattutto rinnovare il mio impegno a fianco di chi quelle battaglie le fa oggi. Non possiamo lasciare sole quelle persone che oggi stanno lottando per quegli ideali per cui è morto mio padre, per la libertà, per il diritto di difesa, per la democrazia. Per me il 21 marzo è tutto questo.»