Le parole possono produrre lo stesso boato di un colpo di pistola. E lo sa bene, anzi benissimo Niko Pandetta, l’ex cantante neomelodico che ha appeso al chiodo l’asta del microfono, abbandonato la canzone napoletana per sfondare – con grandissimo successo – nel mondo della trap. Con l’appoggio dei big dell’attuale scena italiana, la discografia nutrita di Niko Pandetta ha scalato le classifiche Spotify, arrivando tra i primi posti nelle tendenze YouTube. Il suo successo, perché di successo stiamo parlando, si deve ad un certo “merito” che lo rende un prodotto vincente: Vincenzo Pandetta è vero.
Decanta un mondo che ha vissuto in ogni sua sfumatura. La malavita tanto schifata nella realtà ce la troviamo sbattuta nella musica, pronta a diventare un tormentone. E lo è, gonfia l’ego dei ragazzi, riempie le platee dei concerti, plasma degli idoli. Discutibili? Possibile. Ma un pezzettino delle sparatorie, delle corse per sfuggire alla polizia, del “regolamento di conti” si è omologato ai nostri gusti musicali senza rendercene conto.
Il passato turbolento di Niko Pandetta è un calderone da cui l’artista attinge, prosciuga ogni esperienza. Si contano sulle dita di una mano i cantanti che potrebbero dire lo stesso. Proprio per questo motivo, i trapper più famosi guardano con un certo rispetto il cantante catanese. L’opinione pubblica un po’ meno. Non è indifferente il numero di concerti annullati dalle Questure di tutta Italia. Scucirsi addosso l’etichetta di criminale in Italia risulta faticoso se non impossibile.
Siamo troppo legati al realismo. Eravamo schizzinosi sulla poltroncina del cinema, soffocando ogni genere che non riflettesse qualcosa così vicino a noi da quasi poterlo toccare. Forse avevamo bisogno di essere compatiti. Paradossalmente adesso, non riusciamo più a distinguere la realtà dalla finzione narrativa. I romanzi triller avrebbero potuto sfornare intere generazioni di serial killer. Qualcuno non è sfuggito al fascino di riprodurre gli efferati omicidi che su carta rasentavano la perfezione. Nessuno ha mai messo alla gogna un romanziere la cui mente, effettivamente, si muoveva in una perfetta simbiosi con quella di un assassino. Le serie tv ci hanno propinato rapine a prova di arresto, dove chi infrangeva la legge, godeva dell’appoggio popolare.
La musica, invece, tra le arti occupa un posto a parte. Negli Stati Uniti i rapper sono spesso membri attivi di gang, anche perchè un rapido ripasso alla storia dell’hip hop ci ricorda come il genere desse voce ai giovani emarginati, perlopiù giovani afroamericani e latinoamericani. E un breve ripasso della storia, ci ricorda che le associazioni criminali non vantano ricchi tra i membri. Il rap americano, tanto violento e crudo nei testi, ha all’attivo numerose lapidi. Potremmo fare dei nomi, spiccioli e banali: 2Pac e Notorius B.I.G i quali vantano entrambi dischi di diamante, considerati i pilastri del rap, dei “mostri sacri” totalizzano oltre 500 milioni di stream su Spotify. Platinato negli Stati Uniti, condannato quasi ipocritamente in Italia: forse non siamo ancora pronti a considerare l’arte come tale, il sottile confine tra la realtà e la finzione narrativa, o tra la realtà e il grottesco piegandoci troppo alla sfumatura “bacchettona” e creando una società dove basta ascoltare una canzone sulla malavita per decidere di impugnare una pistola e commettere una rapina. Ma siamo legati all’arte o all’artista?