“Il sogno di un uomo ridicolo” tratto dal racconto fantastico omonimo del 1876 di Fëdor Dostoevskij e inizialmente inserito nel Diario di uno scrittore, ha stregato il pubblico del teatro Stabile di Catania.
La regia è del grande, grandissimo, Gabriele Lavia impegnato su una scena scarna, oscura e minimalista in un ininterrotto monologo di un’ora e mezza tra contorsioni, cadute da cui si rialza con un balzo, nonostante sia ingabbiato in una camicia di forza…e in barba all’età.
L’uomo ridicolo, di cui non si conosce neanche il nome, è solo e disprezzato da tutti: «Io sono un uomo ridicolo. Ora mi chiamano pazzo…Ma quando divenni un giovanotto, diventai, non so perché, un po’ più tranquillo. Proprio ‘non so perché’… Forse per… la convinzione formatasi in me che dappertutto nel mondo tutto è indifferente: indifferente…».
Un’indifferenza che lo porta anche a ignorare il pianto e le richieste di aiuto di una bambina incontrata in una notte di pioggia. Tornato a casa decide di mettere in atto quel suicidio cui da tempo pensava, ma mentre sta per premere il grilletto della sua ‘bella pistola americana’, si addormenta.
Così inizia il suo sogno (“Un sogno? Che è un sogno? E la nostra vita non è un sogno?”), il viaggio onirico che lo conduce in un pianeta identico alla Terra abitato però da esseri puri e innocenti che lo accolgono con amore e rispetto e che, finalmente, non lo reputano ridicolo.
Ma la radice egoista, immorale e meschina dell’uomo ha il sopravvento: “gli insegnai a mentire e amarono la menzogna e conobbero la bellezza della menzogna …e li sedusse … poi rapidamente nacque la sensualità, la sensualità generò la gelosia, la gelosia generò la crudeltà … ben presto schizzò il primo sangue … cominciò la lotta per il tuo per il mio, per il mio, per il mio …Sì, sì, andò a finire che li pervertii tutti! Come ciò poté avvenire non lo so, ma lo ricordo chiaramente…così anch’io infettai di me tutta quella terra, prima del mio arrivo felice, senza peccato.”.
Al suo risveglio, tuttavia l’uomo ridicolo viene deriso dagli altri, a cui vuol donare la verità.
«Ma essi cominciarono a ridere, ridevano soltanto di me e poi cominciarono a tenermi in conto di strambo. Poi cominciarono a dirmi che stavo diventando pericoloso per loro e poi cominciarono a dirmi ch’era meglio ch’io fossi rinchiuso in manicomio, in manicomio, in manicomio…».
Eppure la soluzione è così semplice e immediata!
L’amore e la solidarietà evangelicamente superano l’egoismo -dice l’autore per bocca del suo ‘uomo’- al di là della presunzione della scienza che ‘tenta di spiegare la vita’ mentre questa va semplicemente vissuta sulle orme di Cristo e dell’amore che ha insegnato al mondo.
E questo non è il punto di partenza del suo pensiero ma la conclusione alla quale giunge Dostoevskij dopo quella cesura che fu il suo arresto e la condanna a morte in seguito ad una falsa accusa di associazione sovversiva antizarista.
La beffa della fucilazione sospesa -per un sadico scherzo di Nicola I- davanti al plotone di esecuzione, l’esilio in Siberia avrebbero cambiato la sua vita e il senso della sua arte.
Abbandonando il giovanile socialismo utopistico del Circolo di Petrasevskij, da progressista il nostro diventerà un conservatore nazionalista, fervente ortodosso, slavofilo e antisemita, convinto della sua missione di portare il ‘messianismo’ russo in Europa:
Ma, in ogni caso, la peculiarità di Dostoevskij -che insieme a Tolstoj resta il più grande autore russo- consisterà pur sempre nella capacità di penetrare l’animo umano nelle pieghe più profonde della sofferenza, nell’abilità introspettiva con cui sviscera i sentimenti ed esplora il ‘sottosuolo del male’, nella sua filosofia:
«La vera novità dello spirito dostoevskiano – afferma Arnold Hauser– consiste nel fatto che in lui le idee hanno la stessa forza emotiva, lo stesso impeto passionale, anzi patologico, che per i romantici hanno il flusso ed il tumulto dei sentimenti».
Anche Nietzsche definirà il grande russo “l’unico psicologo da cui avrei qualcosa da imparare”.
«Il sogno è quasi un’ossessione -osserva Gabriele Lavia- ho scelto di rimetterlo in scena per riaffermare con forza come l’indifferenza, la corruzione e la degenerazione non possano essere le condizioni di vita della nostra società…».
Attenzione, quest’uomo ridicolo… ha scoperto il segreto della bellezza e della felicità, il segreto per ‘rimettere tutto a posto’…ma è consapevole dell’impossibilità di riuscita del suo progetto, eppure nel raccontare, nel ‘predicare’ la ‘vecchia verità’ trova il senso più profondo e l’unico scopo possibile della vita: mostrare la via di salvezza agli uomini, pur sapendo che non vi è possibilità di riuscita e di vittoria.”
Come secoli prima Calderon de la Barca esplorava il sottile crinale che separa la vita dal sogno concludendo che l’unica vera realtà consiste nel “bien obrar”, così anche Dostoevskij fa concludere il suo uomo ridicolo:
«Un sogno? Che è un sogno? E la nostra vita non è un sogno? Dirò di più! Sia pure, sia pure che questo non debba mai avverarsi e che il paradiso non possa esistere (questo sì, ormai lo capisco!): be’, ma io tuttavia racconterò… racconterò… racconterò. E intanto la cosa è così semplice: in un sol giorno, in una sola ora tutto si assesterebbe di colpo! Soprattutto: ama gli altri come te stesso, ecco quel che è essenziale, ed è tutto, non occorre proprio nulla di più: subito troverai come comportarti. E intanto è soltanto una vecchia verità, che un milione di volte si è ripetuta e letta, eppure non ha attecchito».
È un messaggio questo che resiste nell’arte al di là del tempo e dello spazio: AMOR OMNIA VINCIT!
Foto Filippo Manzini