La città cambia lentamente di solito, quasi senza far rumore. A volte, però, cambia di colpo. A volte in una notte soltanto. Il rogo alle Ciminiere non è solo un danno: è una cesura nella nostra memoria civile, è il segno che marca un prima e un dopo.
Quando brucia un luogo di cultura, brucia un pezzo di noi
E qui c’è anche il dolore aspro della consapevolezza che nel nostro quotidiano presente sia ormai supinamente accettato quel sistema malato, infetto, che si nutre della cura intermittente: per anni quel complesso ha vissuto tra stagioni felici e periodi di triste e abulico e trascurato abbandono.
Non per accusare, ma per dirci la verità: le architetture pubbliche invecchiano male, periscono a volte, quando le dimentichiamo, quando le trascuriamo, spesso troppo a lungo, quando non le sentiamo nostre davvero con l’amore che ciò ne dovrebbe conseguire.
Ora contano due cose, semplici e alte
La prima è una speranza concreta: che esista una copertura assicurativa adeguata per sostenere la ripartenza senza scaricare tutto sulla collettività, coscienti che, altrimenti, la sua assenza o inadeguatezza determinerebbe un tempo indefinito per qualsiasi serio intervento.
La seconda è una scelta di metodo: trasformare lo shock in confronto culturale e in decisione condivisa, non in riflessi di pancia, non in facili vetrine o insulse passerelle o pelosi amarcord.
Qual è il metodo? È un percorso pubblico che metta in fila quattro parole, quattro concetti: recupero, ricostruzione, sostituzione, integrazione. Non come bandiere ma come strumenti.
› Recupero, se e quando la materia e il senso resistono e vanno, allora sì, rimessi in valore.
› Ricostruzione, quando servono aggiornamenti profondi, ma si vuole custodire un’identità ancora viva e riconosciuta, riconoscibile.
› Sostituzione, quando l’onestà intellettuale impone di cambiare, perché restare identici sarebbe una mera ipocrita finzione di cui nessuno sente il bisogno.
› Integrazione, quando il nuovo può completare il vecchio o ciò che ne è rimasto, dando con ciò ad esso il meritato rispetto, e rendere il luogo più aperto e utile, anche migliore.
Non si tratta di scegliere lo slogan, ma di condividere criteri: memoria, uso pubblico, qualità architettonica, apertura alla città, sostenibilità della gestione.
Criteri e confronto
Criteri chiari, discussi in un confronto vero, in tempi certi e congruamente brevi: un archivio aperto sul lavoro di Giacomo Leone, una mostra delle storie e degli usi delle Ciminiere, incontri con chi le ha progettate, abitate, gestite.
Non una commemorazione, ma un laboratorio civico, forse la più onesta maniera di onorare e ricordare chi quel luogo lo ha sognato, pensato e costruito e al suo modo, a volte brusco e diretto, di interpretare il mondo e la società, anche e soprattutto con il suo segno, le sue opere.
Poi sì, servirà uno strumento all’altezza: un concorso di progettazione come forma alta di dialogo pubblico, con un documento di indirizzo serio e ben definito, nato da quel confronto. Non per fare vetrina, ma per chiedere al progetto di farsi carico di tutto: accessibilità reale, spazi flessibili, sicurezza, sostenibilità, per la collettività prima ancora che per l’ambiente, e soprattutto apertura. Perché i luoghi vivi sono anche più protetti.
Bisogno di risposta coerente
Il paragone aiuta a non sbagliare mira: il Cutuliscio di Leone non è Notre-Dame, così come non può essere le Twin Towers. Non abbiamo bisogno di retoriche globali, di manifesti alla memoria e neppure di “com’era dov’era” automatici e acriticamente scimmiottanti.
Abbiamo bisogno di una risposta coerente con Catania: riconoscere il valore dell’opera, leggere i bisogni di oggi, scegliere la scala giusta, pretendere qualità e responsabilità. Anche per rispetto a chi quell’opera ha siglato, all’interno di un forte contesto preesistente e con la determinazione e decisione della propria riconoscibile presenza.
La città che cambia non è solo cronaca. È una promessa, per chi c’è, per chi ci sarà: che da una perdita nasca un luogo più giusto, più accessibile, più frequente; e un modo più maturo di decidere insieme.
Il vero monumento non sarà l’oggetto che riempirà/ sostituirà / integrerà il vuoto fisico, ma il processo con cui lo avremo immaginato, definito, scelto. Insieme.
Se sapremo farlo, da questa violenta e amara notte verrà un mattino diverso: non un ritorno indietro, ma un passo avanti nel modo di pensare, immaginare, abitare e vivere la città, la nostra città. Che possa segnare, finalmente, una direzione.
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Mario Caruso – Architetto, autore de L’Urlo
Architetto libero professionista dal 1990, Mario Caruso ha firmato importanti interventi pubblici e privati, distinguendosi per la visione sostenibile, bioclimatica e innovativa della progettazione architettonica. Laureato a Firenze, ha un lungo percorso accademico e professionale alle spalle, con esperienze in ambito universitario, consulenze per enti internazionali come UNESCO e MIBAC e attività progettuale in Italia e all’estero.
Fondatore dello studio Base51, ha lavorato su edifici NZEB, con una spiccata attenzione all’architettura antisismica e alle tecnologie costruttive avanzate.
Autore di pubblicazioni e fotografo d’architettura, ha un approccio multidisciplinare e una naturale inclinazione per la ricerca e la sperimentazione, anche nel campo dell’informatica e della comunicazione visiva.
Su L’Urlo firma la rubrica: “Città in corso” – Appunti di architettura, vite e trasformazioni urbane. Come sopravvivere in città, e magari pure felici. Uno spazio per raccontare, riflettere e indagare il paesaggio urbano con sguardo curioso, critico e umano.








