La giornalista e scrittrice, Katya Maugeri ha scelto di occuparsi di un tema scomodo e spesso lasciato a sé stesso: il carcere. Con libri come Liberaci dai nostri mali e Tutte le cose che ho perso, ha raccontato le vite di uomini e donne reclusi, trasformando le loro testimonianze in una lente sociologica capace di mostrare non solo la condizione dei detenuti, ma anche le fragilità della società che li giudica.
Il suo lavoro nasce dall’esigenza di comprendere: «Quando entrai per la prima volta nel carcere di Augusta, durante uno spettacolo teatrale dei reclusi mi chiesi che tipo di padre potesse essere quell’uomo sul palco. Da lì è iniziata la mia ricerca: capire cosa c’è dietro una vita segnata dal reato».
Carceri italiane: una realtà fragile
Dalle sue inchieste emerge con forza la carenza strutturale e gestionale del sistema penitenziario italiano. Katya denuncia come spesso le strutture non siano adeguate ai bisogni delle persone che vi abitano: un esempio emblematico riguarda le carceri femminili, nate da un modello pensato per uomini e per questo motivo incapace di rispondere alle esigenze specifiche delle donne. Il problema non è solo infrastrutturale, ma culturale: la società civile mostra scarso interesse per il destino dei detenuti, lasciando che associazioni e volontari si assumano il compito di colmare un vuoto istituzionale.
Raccontare il carcere: responsabilità e verità
«Scrivere del carcere significa avere una responsabilità precisa: combattere la disinformazione e abbattere i pregiudizi», afferma la scrittrice. Nei suoi libri non c’è spazio per la retorica del perdono: i protagonisti stanno scontando la pena e sono consapevoli del proprio reato. Ciò che viene raccontato è la realtà quotidiana delle celle, fatta di salute mentale compromessa, tossicodipendenza, difficoltà relazionali e desiderio di rinascita.
Non si tratta di giustificare, ma di comprendere. Capire perché una persona ha commesso un reato non significa assolverla, ma permettere alla società di prevenire altri reati.
Il ruolo del giornalista sociale
Per Katya Maugeri il giornalista che sceglie di occuparsi di tematiche sociali deve avere alcune qualità imprescindibili: empatia, sensibilità, capacità di ascolto attivo. «Un giornalista non deve giudicare, ma raccontare. Deve saper dare voce a chi voce non ha, senza filtri e senza distorsioni. Solo così si costruisce un racconto onesto e utile alla collettività». È un approccio che chiede di superare la superficialità del dibattito pubblico, spesso limitato alla cronaca nera, per restituire invece un quadro più complesso e umano.
La frattura tra detenuto e vittima
Un tema ricorrente nel lavoro di Maugeri è quello della frattura generata dal reato: tra chi lo ha commesso e la società, ma soprattutto tra il detenuto e la vittima. I suoi libri mostrano come questo rapporto resti aperto e doloroso, anche dopo anni di detenzione. Alcuni detenuti hanno riflettuto sul proprio percorso, altri continuano a farlo dentro le mura. In entrambi i casi, ciò che emerge è la necessità di non ridurre il reato a una semplice etichetta, ma di comprenderne il peso umano e sociale.
Oltre le sbarre: il bisogno di storie
La giornalista è convinta che la società abbia bisogno di ascoltare queste storie, non per commuoversi, né per schierarsi a favore dei detenuti, ma per intraprendere un percorso di consapevolezza collettiva. Con una maggiore coscienza critica, la società potrebbe affrontare le cause alla radice, evitando che le carceri continuino a riempirsi.