Vivere a Catania è come partecipare a una commedia scritta da Woody Allen e diretta da Scorsese. C’è ritmo, ironia, un tocco di disperazione e un finale che non arriva mai. La città è bellissima, viva, ironica — eppure quando lasci la macchina parcheggiata in centro, ti viene da recitare un’Ave Maria e un monologo interiore.
Nel cuore della città, tra una pizzeria che resiste e un’edicola che chiude, c’è un nuovo genere letterario: il cartello supplichevole.
Foglio A4, scritta tremolante: “Non rompere il vetro, non c’è niente da rubare”
Un gesto poetico e inutile insieme, come lasciare un biglietto d’amore a chi ti ha già lasciato. L’idea che un ladro, vedendolo, possa avere un rigurgito di coscienza è tenera quanto ingenua. Ma i catanesi ci provano lo stesso. Perché sperare costa meno di un finestrino.

Credits photo Davide Bruno


Davide, un personaggio in zona
Uno di loro è Davide Bruno, ristoratore del centro storico, uomo ironico e resistente come i sampietrini di via Etnea. «Io la macchina l’ho comprata nel 2021 — racconta —. Tre mesi dopo mi hanno sfondato il vetro. Davanti all’ufficio comunale. Ho chiamato la Polizia, ho trovato un accendino che non era mio e gliel’ho dato, pensando di aiutare. Mi hanno detto: “A noi non serve”».
Sorride mentre lo dice, ma è quel sorriso che si fa dopo la terza delusione consecutiva, quando non resta che prenderla a ridere. «Capisci? Io provo a collaborare e loro mi rispondono che non serve. Allora ho smesso di arrabbiarmi. Ora metto un biglietto pure io, ma ironico: “Non rompere, non c’è niente. Nemmeno la speranza.”».
Davide è diventato un personaggio. In piazza Pietro Lupo lo conoscono tutti. Racconta di quando sua moglie vide un ladro braccato da un finanziere-condomino, una scena degna di una sitcom: «L’hanno beccato, eh. Giorno dopo era di nuovo sotto casa, cercava un’altra macchina da aprire. Ho riso, ma giuro che non so se era più isteria che ironia».
Parcheggiatori abusivi capillari, piazze nuove, ma la sicurezza?
Poi c’è la parte dei parcheggiatori abusivi, che a Catania sono più capillari dei semafori. Li trovi ovunque, anche nei sogni. Ti fanno cenno col fazzoletto pure se stai attraversando la strada a piedi. La tariffa non cambia: il contributo è obbligatorio, la ricevuta immaginaria. E se non paghi, l’ansia è gratis.
Nel frattempo il Comune inaugura piazze come se fossero serie TV: una nuova a stagione. Ma la sicurezza resta inedita. «Io con l’amministrazione ci parlo — dice Davide —, mi dicono sempre sì, sì, sì. Poi spariscono. Forse “sì” è un’abbreviazione di “sì, ma non oggi”». Intanto i vigili urbani, racconta, «pensano solo a fare multe per farsi la tredicesima. Ma se prima non fate parcheggi, dove volete che la gente metta la macchina? Sull’Etna?».
E mentre lo dice, ti accorgi che Davide non è arrabbiato: è deluso, che è molto peggio. Come chi ha amato la città troppo per poterne ridere davvero, ma abbastanza da non riuscire a odiarla.
Intorno, il resto della scenografia non cambia: porte vecchie appoggiate ai muri come sculture concettuali, sacchi di sabbia lavica diventati parte dell’arredo urbano. Catania non è disordinata, è installativa. Una mostra a cielo aperto di resilienza mediterranea, dove tutto resta — vetri rotti compresi.
Eppure, tra un furto, una multa e un nuovo “sì” che non porta a niente, la città continua a vivere. Continua a cucinare, a suonare, a ridere. C’è chi ancora mette un cartello sul cruscotto e chi chiama il 112 con la stessa fede con cui altri consultano l’oroscopo.








