Le nostre strade

di Mario Caruso

C’è una tentazione che ritorna ciclicamente in ogni città che soffre: fare “qualcosa” subito. Mettere due fioriere sulle strade, ridisegnare una striscia a terra, spostare qualche sosta, piazzare paletti e chiamarla rigenerazione. È l’urbanistica tattica: interventi rapidi, economici, reversibili, spesso utili per testare scenari e cambiare abitudini. Ma c’è un punto che a Catania (e non solo) stiamo ignorando con una certa costanza: se l’urbanistica tattica non sta dentro un disegno generale, diventa una collezione di episodi.

E gli episodi, in città, non fanno sistema. Il rischio non è solo estetico o di percezione. È più serio: risorse pubbliche sprecate, conflitti tra interventi, manutenzione impossibile, risultati che non durano e, peggio, cittadini che si convincono che “tanto non funziona mai niente”.
L’urbanistica tattica non è sbagliata. Lo è quando pretende di sostituire la strategia.

La città non è un collage: è una macchina complessa (con persone dentro)

Pedonalizzare una strada, allargare un marciapiede, togliere parcheggi dalla carreggiata, piantare alberi: sono azioni che possono cambiare davvero la qualità dello spazio pubblico. Il punto è che ogni intervento puntuale sposta pesi e flussi: traffico, sosta, carico-scarico, percorrenze del trasporto pubblico, emergenze, logistica commerciale, microclima, sicurezza, accessibilità.

Se non hai un quadro generale, accade sempre la stessa cosa: pedonalizzi qui e congestioni là; togli sosta qui e la ritrovi in doppia fila là; metti una pista ciclabile che finisce nel nulla; migliori un tratto e peggiori tre incroci; apri un “salotto urbano” ma lasci intorno il rumore e i gas come colonna sonora permanente.

E a quel punto l’intervento, anche se nato bene, diventa fragile, contestabile, facilmente smontabile al primo cambio di vento politico o al primo post indignato. Strade nate per due carrozze, oggi invase da “Pontiac” (anche quando non ce ne accorgiamo).

Paradosso fisico per Catania

Catania ha un paradosso fisico, prima ancora che culturale: molte strade del tessuto ottocentesco sono nate per un mondo in cui i mezzi erano più stretti, più lenti, più prevedibili. Immaginiamo una strada “tipo”: circa 6 metri di sede stradale e marciapiedi da 1 metro per lato: 8 metri, a volte 10. Un assetto che, a fine ’800, reggeva bene: due carrozze si incrociavano, la città respirava, la sosta era un fatto secondario, non una dipendenza.

Oggi, invece, in quello stesso spazio pretendiamo di far stare: auto sempre più larghe (e spesso sempre più alte), due sensi di marcia “elastici”, parcheggi lungo la carreggiata, carico-scarico, scooter e moto che passano ovunque, pedoni compressi sui margini, e ogni tanto anche un autobus che deve “arrangiarsi” come può.

Il risultato lo conosciamo: corsie fantasma. La strada “sembra” abbastanza larga per due auto affiancate, e quindi tutti provano a starci, ma in modo disordinato. Si stringe, si invade, si improvvisa. In città non si guida: si sopravvive. E qui l’immagine è potente: strade pensate per due carrozze oggi devono ospitare automobili che, per ingombro e presenza, ricordano le grandi americane di fine anni ’50 e ’60. Anche quando non sono davvero Pontiac, l’effetto urbano è quello: mezzi sovradimensionati in spazi minuti.

Urbanismo tattico sì, ma “a cascata”: prima la visione, poi gli interventi

Se vogliamo che pedonalizzazioni e micro-riqualificazioni non siano fuochi d’artificio, serve una gerarchia molto chiara:
1. Piano strategico urbano: una visione e obiettivi misurabili. Cosa vogliamo diventare tra 10 anni? Più vivibile, più fresca, più accessibile, più produttiva? Bene: allora fissiamo indicatori chiari (tempi di spostamento, sicurezza stradale, ombreggiamento, qualità dello spazio pubblico, accessibilità universale).
2. Piano della mobilità e della sosta: non “un’idea”, un sistema, strutturato. Decidere dove si muovono le auto non è un dettaglio: è il telaio su cui si appoggia tutto il resto. Sensi unici, anelli di scorrimento, zone 30, priorità TPL, logistica urbana, aree per carico-scarico: senza questa regia, ogni pedonalizzazione diventa una guerra di posizione.
3. Decentramento delle funzioni congestionanti. Se concentriamo uffici, servizi, attrattori, eventi e funzioni “pesanti” sempre negli stessi pochi nodi, il traffico non si “fluidifica”: si riproduce. Serve una città policentrica, dove alcune funzioni si spostano e altre si duplicano, in modo intelligente, controllato, pensato: programmato.
4. Trasporti alternativi che funzionano davvero. Non basta disegnare una ciclabile: deve portarti da qualche parte senza interrompersi, deve costituire un circuito. Non basta dire “prendete il bus”: deve essere frequente, affidabile, leggibile, accessibile. Altrimenti l’auto resta l’unica scelta razionale.
5. Solo dopo: urbanistica tattica come test; e come acceleratore. A quel punto la tattica diventa potentissima: sperimenti, misuri, correggi, poi stabilizzi. Ma non al buio: con una mappa in mano.

Parigi, Spagna: non è “moda”, è metodo

Negli ultimi anni diverse città europee hanno fatto una cosa semplice (e radicale): hanno ridotto lo spazio per le auto non per punizione, ma per efficienza urbana. Meno carreggiata veicolare dove non serve, meno sosta lungo strada quando blocca flussi e sicurezza, più marciapiedi vivibili, più alberi, più ombra, più continuità pedonale e ciclabile.
Il punto non è copiare Parigi o Barcellona. Il punto è capire il principio: la strada non è solo un tubo per auto.
È lo spazio pubblico più diffuso della città. Se la città è calda e congestionata, la strada è il primo luogo in cui si può cambiare davvero la qualità della vita.
Ma, di nuovo, funziona quando è coerente con:

• sensi di marcia ripensati,
• trasporto pubblico potenziato,
• parcheggi organizzati fuori dalle strade “fragili”,
• logistica urbana gestita.

Altrimenti, togli parcheggi e basta: e ti ritrovi il parcheggio che “riappare” in doppia fila, cioè nella forma peggiore possibile.

Una proposta concreta (e poco romantica): ridisegnare le regole prima di ridisegnare l’asfalto.

Se dovessimo ridurre tutto a una frase, sarebbe questa: prima si ridisegnano le regole della circolazione, poi si ridisegna la sezione stradale.
Perché oggi molte strade catanesi sono formalmente a due sensi, ma di fatto sono: a un senso e mezzo, a due sensi “a turni” e sempre con un terzo senso abusivo fatto di sosta, consegne, inversioni. E la repressione serve, ma non risolve.

E allora sì: ha senso parlare di interventi puntuali, anche piccoli, ma dentro un programma chiaro:
• strade strette ottocentesche: diventano a senso unico dove serve, con marciapiedi che tornano ad essere marciapiedi, non corridoi;
• sosta: da “ovunque si può” a “dove è previsto e dove non distrugge la strada”;
• incroci: pochi ma risolti bene, perché sono lì che si perde tempo e sicurezza;
• alberi e ombra: non come arredo, ma come infrastruttura climatica.

Sembra tecnico. In realtà è una scelta culturale: decidere che la città non è un parcheggio attraversabile, ma un luogo abitabile. La domanda scomoda (quella che va fatta prima della prossima fioriera) Ogni volta che proponiamo urbanistica tattica dovremmo porci una domanda semplice, quasi brutale: “Questo intervento, da solo, cosa produce tra 6 mesi?”

Se la risposta, seria ed onesta, è “niente, oppure confusione”, allora non serve più vernice: serve più visione. L’urbanistica tattica è un ottimo strumento. Ma se non è parte di un piano, strategico, di mobilità, di clima urbano, rischia di diventare una scenografia. E la città, prima o poi, presenta il conto. Catania può scegliere di sommare episodi o costruire un disegno. La differenza non è tra “chi vuole cambiare” e “chi non vuole”. La differenza è tra cambiare davvero e fare cose che sembrano cambiamento. Catania non ha bisogno di altri “interventi”. Ha bisogno di una direzione.

Perché una città non si salva con una pedonalizzazione isolata, né con una piazzetta rifatta bene e circondata dal caos: si salva quando ogni gesto, anche il più piccolo, diventa coerente con un’idea più grande. L’urbanistica tattica, allora, torna al suo ruolo migliore: non cosmetica, ma laboratorio. Non episodio, ma prova generale. Non un “vediamo che succede”, ma un “stiamo andando lì”. E “lì” può essere una Catania dove le strade smettono di essere corridoi di conflitto e tornano a essere luoghi: freschi, attraversabili, sicuri, umani. Una città che non misura il proprio successo in metri quadri di asfalto, ma in tempo restituito alle persone, in ombra, in silenzio, in possibilità.
Non è utopia. È progetto. E un progetto, per funzionare, deve iniziare prima dell’ultimo paletto: deve iniziare da una visione che tenga insieme tutto.

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Mario Caruso – Architetto, autore de L’Urlo

Architetto libero professionista dal 1990, Mario Caruso ha firmato importanti interventi pubblici e privati, distinguendosi per la visione sostenibile, bioclimatica e innovativa della progettazione architettonica. Laureato a Firenze, ha un lungo percorso accademico e professionale alle spalle, con esperienze in ambito universitario, consulenze per enti internazionali come UNESCO e MIBAC e attività progettuale in Italia e all’estero.

Fondatore dello studio Base51, ha lavorato su edifici NZEB, con una spiccata attenzione all’architettura antisismica e alle tecnologie costruttive avanzate.

Autore di pubblicazioni e fotografo d’architettura, ha un approccio multidisciplinare e una naturale inclinazione per la ricerca e la sperimentazione, anche nel campo dell’informatica e della comunicazione visiva.

Su L’Urlo firma la rubrica: “Città in corso” – Appunti di architettura, vite e trasformazioni urbane. Come sopravvivere in città, e magari pure felici. Uno spazio per raccontare, riflettere e indagare il paesaggio urbano con sguardo curioso, critico e umano.

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