Attraversare la città di sera significa spesso scegliere percorsi non per comodità, ma per sicurezza: si cerca un tratto di strada illuminato, una piazza vissuta, un marciapiede abbastanza largo da non costringere a camminare sul margine del traffico.
Sembrano piccoli dettagli, ma diventano il criterio quotidiano di chi la città non la attraversa con un corpo neutro.
Perché, come dicono le ricercatrici Andreola e Muzzonigro, fondatrici del collettivo Sex & the City, «la città non è mai stata davvero quel disegno in planimetria in bianco e nero che abbiamo immaginato per lungo tempo nelle scuole di architettura», ma «il modo in cui decidiamo di viverla, pensarla e costruirla insieme».
E parlare di urbanistica femminista o di “governo del territorio” di genere, non significa evocare una specializzazione per pochi addetti, ma accogliere e valorizzare le differenze come beni preziosi.
Significa, anche, interrogarsi su una domanda semplice e radicale: per chi è progettata la città?
Domanda che Jane Jacobs già negli anni ’60 urlava tra le strade di New York, difendendo le “strade con occhi”, gli spazi vissuti, il principio che la sicurezza nasce dalla vita urbana e non dalla sua militarizzazione. Una visione che ancora oggi resta sorprendentemente attuale. L’urbanistica femminista è la prosecuzione di quella intuizione: non parla “solo di donne”, ma di tutte le persone, in qualsiasi modo vivano la città.
È una lente che riconosce che lo spazio non è neutro — come sottolinea Leslie Kern nel suo Feminist City — ma costruito su modelli di potere, ruoli sociali e tempi di vita che storicamente non contemplano la complessità della cura.
E se l’importanza della cura non è riconosciuta, lo spazio non la sostiene
Non mancano, però, esempi di progettazione consapevole.
Vienna, grazie ad Eva Kail, oggi Gender Planning Expert della città asburgica, ha costruito a partire dal 1991, una politica di gender mainstreaming che non è slogan ma metodo: dalle analisi dei percorsi quotidiani di donne, bambini e anziani, ai progetti residenziali Frauen-Werk-Stadt, si è giunti alla consapevolezza della non-neutralità delle politiche pubbliche in quanto portatrici di effetti potenzialmente discriminatori.
Barcellona si distingue per la forza del collettivo Col.lectiu punt 6, guidato da Zaida Muxì, che lavora sulla città dal basso rivendicando il diritto allo spazio pubblico, alla mobilità sicura, al tempo e alla cura come infrastrutture urbane. Una città dove la trasformazione urbana non è solo istituzionale, ma anche sociale, e dove l’azione collettiva ha influenzato politiche municipali sul genere, sui quartieri e sulla prossimità.
Una linea che dialoga con esperienze come la Matrix Feminist Design Co-operative in UK, pioniera nel ripensare spazi attraverso pratiche partecipate, o con studi come Feminist Urbanism, che trasformano temi urbani in politiche di equità spaziale.
Intanto Catania lavora per il Pug
E mentre molte città lavorano su questi temi, anche Catania inizia timidamente a farlo. Nel percorso partecipato del nuovo PUG si è dedicato spazio al tema “Donne, città e inclusione”, aprendo un fronte di dialogo che fino a poco fa sembrava utopistico.
Non è la soluzione: è un innesco che ci può portare a pensare a un Laboratorio di Città in cui interrogarsi, analizzare, rispondere, sperimentare, proporre per sostenere l’idea di una città più inclusiva.
La sfida è trasformare la discussione in progetti reali — marciapiedi accessibili, trasporto notturno sicuro, servizi di prossimità, cura dello spazio pubblico come cura sociale. Non grandi rivoluzioni iconiche ma micro-azioni trasformative.
L’urbanistica femminista, in fondo, non divide. Ricompone e redistribuisce. Rimette al centro la vita quotidiana, i tempi della cura, la dignità dei corpi che attraversano la città. È politica, nel senso che riguarda tutti.
E forse l’architettura ha bisogno urgentemente di riappropriarsi di questa dimensione
Proviamo allora a immaginare di nuovo attraversare la città di sera: la strada illuminata, il marciapiede libero, persone sedute a parlare sotto un albero, bambini che rientrano da un laboratorio, una fermata dell’autobus dove non si attende soli. Una scena semplice, quasi ordinaria. Eppure rivoluzionaria, se smettiamo di considerarla un lusso.