Il mio buongiorno a Catania? Lo dà Oracoletta. È così che ho deciso di chiamarmi quando, tra una call di
strategia e un piano editoriale, mi immergo in quell’altro mondo che mi appartiene da sempre — quello invisibile, energetico, intuitivo.
Sono un’imprenditrice della comunicazione con il cuore in uno spazio più ampio, dove si intrecciano carte,
collezioni di tarocchi, intuizioni e riti che cercano non il mistero per il mistero, ma uno sguardo più profondo sulle
cose. Non sono wikka, non sono strega, e non seguo scuole codificate. Quello che mi affascina è l’altrove che respira negli sguardi sinceri, nei gesti tramandati, nei piccoli rituali quotidiani che profumano di un sapere antico.
Perdersi in pieno centro a Catania
Quello che cerco dopo il buongiorno di Oracoletta è una verità vibrante, ruvida, popolare, che spesso scivola lontano da quello che chiamiamo spiritualità con la “S” maiuscola. A Catania, quando voglio ritrovare me stessa, mi perdo in uno dei quartieri più vivi e dimenticati: via delle Finanze, zona che un tempo fu delle “belle… puttane”. Oggi, tra case decadenti e angoli impolverati, si respira un’umanità cruda, disordinata e intensa.
Qui si affacciano storie che vengono da lontano: Senegal, Bangladesh, Tunisia, Nigeria, Colombia, Brasile. Una babele di lingue, odori, musiche storte ma soprattutto sorrisi larghi. Qui la città è meticcia, è viva, è vera. Qui si fa esperienza del sacro, nel senso più profondo del termine: sacro è ciò che ci mette in contatto con l’altro.
La settimana scorsa la mia amica senegalese Maria mi ha detto: “Sorella, ti hanno buttato qualcosa di brutto addosso”. Non ci ho riso sopra. Ho ascoltato. E lei, con la naturalezza di chi riceve i saperi a voce e a cuore, mi ha raccontato un rito che le ha tramandato il nonno per “sciogliere il nodo dell’anima e allontanare il
male che viene dagli altri”.
Serve pazienza e costanza, come in ogni processo che voglia davvero trasformare. Per sette giorni consecutivi, bisogna raccogliere con intenzione 57 chiodi di garofano e 57 foglie di alloro. Immergerli in una vasca con un pugno di sale grosso e lasciarli lì una notte intera.
Assorbire la memoria e non solo
L’acqua non deve bollire, dice il nonno, deve impregnarsi, non evaporare. Deve assorbire la memoria, il profumo, la forza silenziosa di queste due piante che, unite, sanno “sciogliere e proteggere”. La mattina dopo ci si immerge. Senza fretta. Senza rumore. Poi si recuperano foglie e chiodi, li si lascia asciugare al
sole, e a fine giornata si brucia il mucchietto, restituendo al fuoco ciò che ha aiutato a lasciare andare.
Io? Sono in fieri, arrivata a malapena al terzo giorno, tra lavatrici, figli, scadenze e notifiche. Ma ogni sera che
riesco a completare il “processo”, sento di aver onorato un piccolo impegno con me stessa.
Perché un rito è fatto di passaggi. È fatto di azioni che ci obbligano a stare. A volerci bene nella lentezza, nella
ripetizione, nella cura. È come dire al nostro caos interiore: “Ti vedo. Ma oggi scelgo di attraversarti, non di subirti”. Questo per me è un altro modo di fare comunicazione: comunicare con l’invisibile, col corpo, con le radici. Con una foglia di alloro in mano e i piedi a mollo nella vasca, torno a parlarmi in silenzio. E a volte, quel silenzio, dice più di mille parole.