“Il libro dal quale è tratto il monologo mi è entrato nel cervello e non ne è più uscito”. È stato come quando incontri quegli amori che ti stravolgono la vita, così Silvio Orlando ha fatto “suo” lo spettacolo “La vita davanti a sé”, in scena fino al 12 febbraio al teatro ABC di Catania, nell’ambito della stagione di prosa “Turi Ferro”.
Un adattamento dal romanzo dello scrittore francese Romain Gary pubblicato sotto lo pseudonimo di Émile Ajar, vincitore del Premio Goncourt.
In questa intervista si racconta in maniera intima, parlando anche del suo rapporto con la madre.
“Questo racconto mi ha toccato, mi ha commosso, non mi capita spesso, quando si legge si mette in moto un meccanismo celebrale, intellettuale, qui invece il meccanismo era di tipo umano. Mi sono intenerito, al punto che per me era diventato quasi un obbligo, un’ossessione metterlo in scena”.
È un romanzo attualissimo, che parla di integrazione e di convivenza tra culture?
“Coinvolgere tutti è la grande sfida di questo secolo, da un lato ridurre la pressione che per mille motivi, economici, di guerre spingono delle persone alla ricerca della salvezza, e dall’altro trasformare questo in un’opportunità e forza, il tema dell’immigrazione è un tema vecchio. L’uomo per natura migra. Ogni volta facciamo finta di avere paura di una cosa che consociamo, paure forse orchestrate, gestite, strumentalizzate, bisogna avere invece sangue freddo, nessuno ha la ricetta in testa. L’arte non ha la soluzione, possiamo solo fare un passo in più, raccontando alcune di queste storie, facendo diventare questa massa apparentemente minacciosa, qualcosa di più complice, sentimentalmente più vicina, da chiamare per nome e cognome. Raccontare le storie è il primo passo per farsene una ragione”.
E poi c’è anche una bellissima storia d’amore?
“Una delle più belle storie d’amore. Quella di un bambino di 10 anni arabo orfano, che vive in un orfanotrofio clandestino. Incontra una donna anziana reduce dai campi di concentramento, ebrea alla fine dei suoi giorni. Lei si prende cura del bambino e poi invece ha bisogno delle cure del piccolo, che è un fantasma. Nessuno lo vede, nessuno sa chi è. Lui è costretto a tenere in vita questa donna e dare dignità ai suoi ultimi giorni. Quando racconto questa storia mi commuovo sempre perché mi sono totalmente identificato nel bambino. Sono partito, come contenuto principale, con il concetto di inclusione e convivenza delle razze e poi l’ho spostato sul tema intimo: il rapporto con la propria madre. Io ho avuto una storia particolare con mia madre, con una mancanza quasi totale, e poi ho scoperto che questa cosa è un tema universale. Quasi tutti hanno un rapporto non risolto con la propria madre. Anche a 90 o 100 anni c’è sempre una parola che non si è riusciti a dire, e tocca tutti al di là di come la si pensa, o dei propri credi”.
Cosa augura al pubblico catanese a fine spettacolo?
“Spero che il pubblico del teatro, e forse questa è una velleità folle, esca un po’ diverso da come entrato. La mia speranza è che in qualche modo l’incontro con una storia, con un rito collettivo, comune, cambi la prospettiva, il mondo di pensare, che aiuti a esercitare il dubbio: uscire meno sicuro di come si è entrati”.
Lo spettacolo sarà in replica giovedì 9 (ore 21), venerdì 10 (ore 21), sabato 11 (ore 17.30), domenica 12 (ore 18).