La moda italiana torna a chiedere regole. Dopo l’approvazione del DDL Concorrenza senza il cosiddetto pacchetto anti-ultra fast fashion, il presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana, Carlo Capasa (nella foto), ha espresso forte preoccupazione: «L’assenza di queste misure ci preoccupa. Il settore ha bisogno di strumenti per difendersi da modelli produttivi che distruggono valore, ambiente e lavoro».
Un mercato fuori controllo
Il fenomeno dell’ultra fast fashion sta assumendo proporzioni enormi. Nel solo 2024, in Europa sono arrivati oltre 4,5 miliardi di pacchi provenienti da piattaforme online, in gran parte cinesi. Un volume che, secondo CNMIZ (Camera Nazionale della Moda Italiana), rappresenta un vero “tsunami commerciale”: milioni di capi venduti a pochi euro, spesso senza alcun controllo doganale, ambientale o sociale. Capasa sottolinea che queste aziende operano con tempi di produzione inferiori a due settimane, con capi lanciati sul mercato immediatamente dopo essere stati visti sui social, e con prezzi medi inferiori ai 10 euro per un vestito.
«È una concorrenza impossibile per chi produce nel rispetto delle regole europee – spiega – perché chi lavora in Italia paga manodopera, sicurezza, contributi e sostenibilità. Qui si parla di modelli che tagliano fuori tutto questo».
Cosa prevedeva il pacchetto anti-ultra fast fashion
Il pacchetto, ispirato alla legge francese in discussione a Parigi, avrebbe introdotto strumenti concreti per frenare il fenomeno. Tra le misure principali è prevista una tassa ambientale progressiva sui capi di ultra fast fashion, da 5 euro nel 2025 fino a 10 euro nel 2031 per ogni articolo venduto. L’obiettivo era colpire chi produce enormi quantità di vestiti a basso costo, destinati a essere smaltiti dopo poche settimane. Un divieto di pubblicità online e social per i marchi classificati come ultra fast fashion, così da ridurre la spinta al consumo compulsivo.
Obblighi di trasparenza sulla filiera e sull’impatto ambientale, anche per le aziende extra-UE che vendono in Italia. Responsabilità estesa del produttore (EPR), con l’obbligo di farsi carico del fine vita dei capi venduti, oggi quasi sempre destinati a discarica o inceneritore.
L’insieme di queste misure avrebbe rappresentato, nelle intenzioni di CNMI, un segnale concreto per “riequilibrare un mercato drogato e non sostenibile”.
Una concorrenza sleale da miliardi
L’ultra fast fashion è oggi un’industria globale da oltre 100 miliardi di dollari l’anno, in crescita del 20% solo nel 2024. Secondo le stime di McKinsey, ogni europeo compra in media 60 nuovi capi all’anno, il doppio rispetto al 2000, e li indossa per metà del tempo. Nel frattempo, il sistema moda italiano che dà lavoro a oltre 500 mila persone si trova a competere con aziende che non pagano IVA o dazi perché vendono tramite micro-spedizioni sotto soglia.
«È una distorsione che non possiamo più ignorare – ha detto Capasa –. Le nostre imprese investono in sostenibilità e legalità, ma il mercato è invaso da prodotti che sfuggono a ogni regola».
La delusione (e la speranza) del settore
L’assenza del pacchetto nel DDL Concorrenza è stata una sorpresa. Molti imprenditori condividono la stessa preoccupazione. Secondo Sistema Moda Italia (SMI), negli ultimi tre anni il comparto tessile-abbigliamento italiano ha perso circa 2,5 miliardi di euro di fatturato potenziale a causa della competizione dei grandi marketplace internazionali. Un danno che non è solo economico: è anche culturale e ambientale.
Un appello per il futuro del made in Italy
Per Capasa, la sfida è ormai culturale prima che economica. La moda italiana chiede quindi una legge che fermi la corsa alla quantità e riporti l’attenzione sulla qualità e la sostenibilità. L’auspicio è che l’Italia, come la Francia, si faccia promotrice di un nuovo modello normativo europeo capace di difendere la filiera e di educare i consumatori a scegliere in modo più consapevole.








